LE REGOLE SONO STATE FATTE PER ESSERE INFRANTE? Quando un detto comune può trasformarsi in una rilevante questione etica

Il diffuso luogo comune che fa da titolo a questa piccola trattazione potrebbe sembrare, e forse effettivamente è nata per quel preciso scopo, la classica espressione utilizzata da un trasgressore per “giustificare” in modo piuttosto impacciato la violazione di una regola o norma. In realtà, questa maliziosa espressione sembra molto adatta, nel profondo, ad una riflessione etica sul fondamento delle regole in generale.

Prima di concentrarci sul problema principale oggetto di questo saggio, sarebbe opportuno dare una preliminare definizione di cosa sia una “regola” o “norma”. Una regola o norma può generalmente essere definita come qualsiasi formula che prescriva ciò che si deve fare in un caso determinato o in una particolare attività[1]. Nella lingua italiana per “ regola” si può anche intendere un evento che si ripete con una certa frequenza e nello stesso modo; dato però che in questo caso il significato semantico non coincide con quello concettuale riguardante la questione di cui trattiamo, tralasciamo questa seconda linea interpretativa.

Se ci atteniamo dunque al concetto di regola così come viene codificata dalla società umana, possiamo ricorrere ad un’ulteriore suddivisione che distingue i vari gradi attraverso i quali una regola può manifestarsi; se allarghiamo il dominio della nostra discussione anche a ciò che è regola in natura ( in questo caso si può parlare di vera e propria “legge di natura”) è evidente che la nostra discussione termina qui con la domanda del titolo che riceve di fatto risposta negativa, o quantomeno dobbiamo ammettere che la questione assume un connotato così vasto che non ci è possibile proseguire ad un livello di riflessione univoco e chiaro: una legge di natura è fatta per essere infranta? Ha tutta l’aria di essere una domanda mal posta. Innanzitutto, chi ha mai infranto una legge di natura? Vi è mai capitato di incontrare qualcuno che abbia confutato le leggi di gravitazione universale di Newton? Avete mai visto un sasso che, una volta lanciato in aria, non sia ricaduto a terra ma abbia continuato a vagare nello spazio? Ecco, ora capite perché non ha senso, in questa sede, includere nel concetto di regola anche le regole o leggi naturali. Esse esulano dal concetto di cui trattiamo perché nessuno di noi ha una nozione empirica di cosa comporti violare una legge naturale.

Limitandoci quindi al concetto “umano” di regola, possiamo ora accorgerci di come esista un’enorme varietà di regole che, rispettate o meno che siano, sono disposte in una precisa gerarchia in base all’importanza che viene loro attribuita anche in base ai contesti sociali. Dato che abbiamo introdotto la sfera sociale, potremmo anche occuparci delle regole che la riguardano, che chiameremo “norme sociali”. Una norma sociale è una regola (scritta e non) che prescrive come le persone devono comportarsi in determinate situazioni della vita sociale[2]. In base alla classificazione del sociologo statunitense William Sumner, che ritengo particolarmente efficace e calzante e di conseguenza riporto, esse si distinguono in:

stateways ( norme giuridiche), le norme emanate dallo Stato ( leggi e regolamenti scritti) il cui rispetto è obbligatorio per tutti i membri della società;
mores (costumi), quelle norme perlopiù tramandate oralmente, ma a cui la collettività riconosce un forte spessore in termini di valore e di legittimità;
folkways (termine che potremmo tradurre con “usi” o “usanze”), le consuetudini praticate all’interno di una società, anch’esse tramandate oralmente, ma prive da quel riferimento alla moralità che caratterizza i mores.[3]
Possiamo subito notare come tale classificazione sia dotata di una propria specifica gerarchicità in base alla nozione umana di etica nei confronti delle regole. Le norme giuridiche ricoprono una posizione sicuramente preponderante rispetto alle altre due tipologie di norme sociali. Queste sono stabilite dalla legge che risponde solamente allo Stato sovrano. Esse devono essere rispettate da tutti e comportano sanzioni e conseguenze deleterie per chi le trasgredisce. Il secondo gradino della gerarchia è occupato dai costumi, norme che certo sono frutto di una lunga tradizione sociale e che godono di un certo rispetto condiviso pressoché dalla maggior parte delle persone. La loro trasgressione non comporta, generalmente, conseguenze equiparabili a quelle delle leggi ma, essendo i costumi dotati, come si diceva, di un certo qual senso “morale”, chi le trasgredisce incorre inevitabilmente nel disprezzo e nella condanna morale del resto della collettività. Infine, troviamo i folkways, definibili più come abitudini che come vere e proprie usanze. La loro validità è generalmente riconosciuta da tutti, ma non hanno un forte connotato morale. Il trasgredirle ha conseguenze pressoché trascurabili e difficilmente si incorre in un qualche tipo di condanna generale.

Già a questo livello di consapevolezza potremmo cominciare a porci la domanda del titolo: le regole sono state create per essere infrante? Il campo di riflessione certo si è ristretto, e sembra ora più facile ragionare sull’origine della regola, o meglio, in questo caso, di quelle che abbiamo definito norme sociali. Proviamo, parallelamente a quanto abbiamo fatto finora, a ragionare per livelli, partendo dal grado meno complesso a quello più astruso.

Prima considerazione: le abitudini si sono formate nel tempo e vengono generalmente considerate valide e rispettabili da tutti, anche se poi non godono di alcun tipo di “sacralità”, in quanto la loro violazione non comporta pressoché alcun tipo di ripercussione considerevole. Facciamo un esempio: è uso comune, almeno in Italia, quello di consumare il pasto serale ( la cena) in un orario piuttosto circoscritto, diciamo in uno spazio orario compreso tra le 19:30 e le 20:30 / 21:00. Ora, se qualcuno, contrariamente alla comune abitudine, decidesse di fare cena in un orario generalmente considerato inappropriato, le 23:00 per esempio, certo ci meraviglieremmo non poco di questa sua decisione. Ma potremmo mai rimproverarlo aspramente o disprezzarlo per il solo fatto che, invece di fare come fanno tutti, si comporta in maniera diversa? Certamente no. Ecco il dunque, perciò. I folkways non possono essere nati per essere infranti perché sono, nella pratica, abitudini comuni condivise dai più perché ritenute “appropriate”. Ne esistono diverse, ma devono necessariamente esistere. Se non esistessero in questa forma, ne esisterebbero delle altre ugualmente rispettate, in genere, da tutti, più per una questione di “comodità” che non in base a concetti quali    “ giustizia” o “moralità”. In definitiva, no, le usanze non sono state create per essere infrante.

Ciò per quanto riguarda il primo grado della nostra riflessione. Passiamo dunque al secondo. I costumi sono norme ugualmente considerate valide dalla maggior parte degli individui, ma hanno un alone di rispettabilità ben diverso dalle abitudini. Tale alone è rappresentato dal loro riferimento alla sfera morale. Potrei quindi, ad esempio, tradire la mia amata e, nonostante ciò, non incorrere in alcuna sanzione particolare da un punto di vista concreto e pratico (sanzione pecuniaria, reclusione, …), ma certo incorrerei nel disprezzo generale se altri venissero a sapere della mia azione. Ciò che tuttavia manca in questo caso è un “corpus” di documenti o pratiche in grado di condannare uniformemente le trasgressioni. La condanna è, per così dire, tutta interiore e grava in modo non indifferente sul trasgressore della norme; a ben vedere egli, sul lungo periodo, non ne ricava alcun vantaggio. Un individuo che guadagna fama di “pessimo amico” perché uso maltrattare, disprezzare e parlar male di quanti diventino suoi amici, finirà col non averne più alcuno. E, si sa, non avere amici, o peggio averne perduti per proprie colpe, non è certo bello. Poiché, come si può evincere, il trasgredire i mores ha solo ed inevitabilmente conseguenze negative, ha senso porsi di nuovo la domanda di cui sopra? Ovvero, se l’uomo non guadagnasse alcun vantaggio dal trasgredire una regola, perché avrebbe dovuto crearla per poi violarla deliberatamente? Dunque, i costumi sono stati fatti per essere infranti? No di certo. Essi, piuttosto, sono nati in funzione di un senso comune della morale tale che si possano evitare conflitti all’interno della comunità.

Affrontiamo infine l’ultimo snodo di quella che si è rivelata una questione etica tutt’altro che banale: la legge. Secondo i filosofi del contratto sociale ( tra cui citiamo i principali: Thomas Hobbes, John Locke, Jean-Jacques Rousseau), lo Stato e la legge sono sorte come “contratto” tra gli uomini che, in tempi remoti, si sarebbero trovati a dover lottare l’uno con l’altro per la sopravvivenza e la supremazia (è il celeberrimo principio hobbesiano dell’”Homo homini lupus”), e che, ad un certo punto, avrebbero compreso il vantaggio di raggiungere un accordo anziché uccidersi a vicenda. La legge, riprendendo le parole del grande giurista e filosofo illuminista Cesare Beccaria, è «l’aggregato delle volontà particolari» in nome della «volontà generale». Ciò vuol dire che ogni uomo, secondo la lettura del Beccaria, ha concesso una parte della propria libertà alla collettività. L’aggregato di tutte le “concessioni” individuali vanno a costituire i concetti di Legge e di Sovranità.

A questo punto sembra proprio che la legge, in definitiva, sia nata come mezzo per evitare la supremazia del più forte , attuando una sorta di distribuzione più o meno equa dei poteri ( a seconda della classe sociale, delle condizioni economiche e quant’altro), e permettendo la nascita di comunità relativamente pacifiche.

Resta il fatto che, logicamente, chi viola la legge per stabilire la propria supremazia sugli altri vede nella violazione stessa la possibilità di ottenere vantaggi. Di conseguenza, alla domanda di partenza (“Le regole sono state fatte per essere infrante?”) risponderebbe: “Certo. La loro infrazione diventa una finalità allorquando un individuo voglia tornare allo stadio in cui è il più forte a prevalere.”
Perciò, da un punto di vista strettamente hobbesiano ( “strettamente” nel senso che recupera solo in minima parte la nozione elaborata dallo Hobbes), sì, le regole sono state create per essere infrante da chiunque voglia ritornare allo stadio “bestiale” (l’uomo è lupo per l’altro uomo). Ma questo è non già un presupposto logico; piuttosto, si riconosce che le regole sono state introdotte dall’uomo per evitare una data situazione; ma tale situazione può infine ripresentarsi a volontà mediante la trasgressione della legge.

La seconda considerazione che voglio proporre è la seguente: abbiamo visto come è nata, secondo la corrente dei contrattualisti, la legge dello Stato. Come si ricorderà, abbiamo già affermato che tale insieme di norme, in cima alla gerarchia delle suddette norme sociali, prevede sanzioni (con grado di gravità influenzato dall’entità della violazione) nei confronti di chi ne trasgredisce i dettami. Di conseguenza, sorge spontanea una riflessione: se esistono sanzioni per chi trasgredisce la legge, significa che, nel momento in cui la legge è nata, sembrava naturale che prima o poi qualcuno le avrebbe disobbedito: la violazione della legge è presupposto logico e attuativo della sua stessa nascita ed esistenza. Se esiste una legge, in effetti, esiste un limite oltre il quale la legge stessa non tollera si proceda. Eppure, se c’è un limite, c’è anche qualcosa oltre di esso: uno spazio in cui ciò che viene fatto è considerato illecito e punibile. Il fatto è che tale spazio ESISTE; ma esiste perché esiste il primo, quello contenuto dalla legge. Di conseguenza, il concetto di “illecito” esiste perché esiste quello di “lecito”(giusto, corretto, fatto secondo legge) e viceversa.
Ancora una volta: “la legge è stata creata per essere infranta”? Sembra proprio di sì.

La conclusione di questa intricata discussione potrebbe essere racchiusa in una considerazione semplice e ragionevole: da un punto di vista etico, l’uomo non ha introdotto la legge affinché questa venga infranta a favore delle esigenze egoistiche dei singoli. Questo sembra in tutto e per tutto un sacro principio alla base di qualsiasi società civile. Certo, da un punto di vista logico, effettivamente, dobbiamo riconoscere che l’infrazione stessa costituisce parte integrante del concetto di legge, e non potrebbe essere altrimenti.

Da fautore e sostenitore di una società il più democratica possibile, non posso che rispondere negativamente alla domanda del titolo. Tuttavia, devo anche riconoscere che è grazie alla possibilità di rispondere “sì, la legge è fatta per essere infranta” che sono giunto ad una mia personale considerazione.

E’ quindi il dubbio, e non un’aprioristica certezza, che favorisce lo sviluppo intellettuale.

[1] Il grande dizionario Garzanti della lingua italiana

[2] Scienze umane Antropologia Sociologia Metodologia della ricerca, E.Clemente R.Danieli

[3] op.cit.

Commenti

Post più popolari