I dialetti d'Italia sono lingue?

Capita spesso in Italia di accorgersi di quante e quali siano le differenze linguistiche spostandosi anche solo di paese in paese. Sembra che della grande varietà di parlate presenti sulla Penisola ci si rende sempre conto. Ciò che spesso sfugge ai non specialisti e alla gente comune è l'essenza di cosa si intenda per 'dialetto', questo anche per l'ambiguità stessa di questo termine.
In effetti , in contesti linguistici diversi da quello italiano (come ad esempio in inglese), il termine 'dialetto' si riferisce solitamente ad una varietà (regionale o sociale) della lingua standard: nella sostanza si definisce come 'dialetto' un uso specifico, "contaminato" potremmo dire, della lingua nazionale. Nel caso dei dialetti d'Italia, NON è questa l'accezione con cui usiamo il suddetto termine.
E' infatti da chiarire subito una cosa: le parlate diffuse sul territorio italiano non sono varianti della lingua che viene indicata appunto come italiano (e che altro non è che la lingua derivata dal fiorentino colto), ma sono continuazioni di parlate volgari sviluppatesi ognuna più o meno indipendentemente da una matrice comune, quella latina-volgare .

Se i dialetti italiani sono lingue perché li chiamiamo 'dialetti'?

Posto il fatto che secondo l'irrilevante opinione dello scrivente il termine 'dialetto' andrebbe sostituito, almeno nel contesto italiano, da termini meno ambigui come 'parlata' o 'lingua locale', vi è almeno un criterio per cui è legittimo distinguere tra lingua e dialetto in un contesto come quello italiano. Se da un punto di vista strettamente scientifico, infatti, dialetto e lingua non sono entità distinte, esse lo sono invece almeno da un punto di vista sociologico. Infatti, una differenza è lampante: sia una lingua sia un dialetto appartengono ad una comunità, ma solo una lingua ha valore ufficiale all'interno di uno stato. Secondo una provocatoria citazione, infatti, una lingua non è altro che "un dialetto con un esercito ed una marina". Per quanto semplice e poco complessa possa essere questa definizione, da un punto di vista sostanziale essa coglie il vero.

... e il sardo?

Alla luce di quanto detto sopra, mi preme chiarire la questione della lingua sarda. Si sottolinea sempre, e a ragione, che il sardo è, a tutti gli effetti, una lingua. Ma altrettanto spesso si commette un errore non irrilevante. Quello di affermare l'indipendenza linguistica del sardo confrontandolo con i 'dialetti d'Italia', arrivando alla conclusione che il sardo è una lingua, a differenza dei dialetti che sarebbero varietà dell'italiano. Così facendo si cade nell'errore che ho descritto all'inizio di questa riflessione. In realtà, il sardo è una lingua tanto quanto lo è un qualsiasi dialetto d'Italia. La differenza da sottolineare, semmai, è un'altra. Ovvero il fatto che, filogeneticamente, il sardo è più distante, rispetto ai dialetti, dall'italiano (leggi 'fiorentino colto'). Per spiegarmi meglio farò ricorso alla cosiddetta 'Teoria dell'albero genealogico' in linguistica.

L'albero genealogico delle lingue romanze

Sappiamo che il latino volgare (o meglio i 'latini', in quanto è ragionevole presumere che la lingua latina nell'Impero romano conoscesse variazioni diatopiche, oltre che diastratiche) ha dato origine alle lingue dette 'romanze' (compresi i dialetti!) di cui le maggiori (per numero di parlanti) sono: italiano (e dialetti), francese, spagnolo, portoghese, romeno, ... Ebbene, il sardo è bensì uno dei 'rami' derivati dalla radice latino-volgare, ma è indipendente rispetto all'italiano e ai dialetti, così come è indipendente, ad esempio, lo spagnolo rispetto al portoghese.
Questo è, fondamentalmente, il motivo per cui la lingua sarda sembra così estranea al resto dei parlanti italiano e dialetti.

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