L'estinzione delle discipline umanistiche: un epilogo necessario?


Oggi vorrei trattare una tematica che negli ultimi tempi è spesso stata affrontata sia dai giornalisti, sia dagli specialisti, sia infine dalla gente comune. Mi riferisco a quella che potrebbe essere indicata come la 'crisi del sapere umanistico'.
Risultati immagini per rovineMi sembra di aver capito che nella maggior parte delle volte questa venga tirata in ballo in virtù di una sua intrinseca inadattabilità al mondo (lavorativo) contemporaneo: è il cliché del sapere 'che non serve a nulla'. Per rispetto verso l'intelligenza di chi legge eviterò di avventurarmi in discorsi di questo genere. Infatti, quando mi riferisco alle discipline umanistiche, io le intendo nella loro dimensione 'scientifica' (mi si perdoni quella che può sembrare un'assurda antitesi), ovvero nel modo in cui opera chi di una data materia è specialista (quindi: il filosofo, il filologo, il critico letterario, il linguista). Parlando appunto in questi termini, è ovvio che la tematica dell'applicabilità dei saperi nel mondo del lavoro non sia una problematica inerente col mio discorso. Tuttavia forse qualche connessione con il mondo della tecnica e della tecnologia (e quindi indirettamente con il mondo del lavoro) c'è. Spiegherò poi il senso di questo collegamento.

Quella che qui propongo è sostanzialmente una critica (che taluni potranno considerare anche troppo severa) verso il modo in cui vengono trattati i saperi umanistici nell'ambiente accademico ma anche al di fuori di esso. Tale critica tenterà di spiegare il motivo per cui sia ben diffusa l'idea dell'inferiorità del sapere umanistico rispetto a quello tecnico-scientifico.

Anzitutto, è facile notare (e lo dico da studente) come le università umanistiche si differenzino da quelle scientifiche per un diverso tipo di paradigma che in esse opera.
Mentre nella scienza il paradigma predominante è quello dell'innovazione , nell'ambito umanistico esso non risulta emergente, a tutto vantaggio invece del paradigma della tradizione. Questo dato è già significativo. Gli 'umanisti' non possono rivaleggiare con gli scienziati nel campo della scoperta e dell'invenzione. Essi sono troppo attaccati al passato, alla dimensione diacronica della disciplina o delle discipline di cui si occupano. Chi fa scienza, invece, è in eterno contrasto con 'il passato della scienza', da cui comunque deve partire la sua ricerca. A livello istruttivo-educativo la differenza di paradigma produce effetti vistosi: mentre gli allievi 'umanisti' sono impantanati nella ripetizione a memoria di formule e concetti, i 'piccoli scienziati' non hanno bisogno di perdere tempo in questo futile divertissement. Essi cercano fin dall'inizio di rendere autonomo il loro pensiero, esercitandolo nella soluzione di problemi inusitati: fin da subito pregustano la soddisfazione della scoperta. Quasi mai avviene qualcosa di analogo in chi si trova a studiare discipline umanistiche, o meglio, quasi mai viene permesso a chi studia discipline umanistiche di giungere a conclusioni nuove sulla scorta dei concetti che si conoscono ma che non esauriscono l'originalità del pensiero.
E così, mentre i primi se ne stanno nelle loro stanze a ripetere versi e date, che ben presto finiranno nell'oblio della memoria dove la loro utilità è nulla, i secondi già vengono messi alla prova e aguzzano l'ingegno, non per ripetere ciò è stato loro detto, ma per rispondere a domande che vengono loro di volta in volta poste e di cui cercano autonomamente le risposte.
Non voglio tuttavia incorrere in una generalizzazione che sarebbe ingiusta per quanti si occuparono o si occupano seriamente dell'oggetto dei loro studi. Le discipline umanistiche hanno avuto e hanno i loro geni, anzi essi sono numerosissimi, ma purtroppo non altrettanto facile è permettere che molte menti capaci raggiungano il loro obiettivo.

Per collegarmi con la questione del progresso tecnico-tecnologico ( e dunque dei mezzi e degli strumenti che vengono utilizzati negli ambiti lavorativi), il varco che separa i due campi, umanistico e scientifico, consiste in quanto ho finora detto: solo chi guarda all'innovazione può rendersi utile alla società; chi è congelato nella dimensione passata è destinato, ahimé, a finire nel 'cestino dei rifiuti della storia'.

Concludendo e rispondendo alla provocatoria domanda posta nel titolo di questo articolo, dico: non è necessario che le discipline umanistiche si estinguano o vengano assorbite da quelle scientifiche, ma è necessario un radicale cambiamento nel modo in cui esse vanno trasmesse e apprese. E per quanto siano orgogliosi gli umanisti 'all'antica' , dal loro scranno cattedratico, essi ricordino: per quanto un vecchio muro sia intriso di storia e di tradizione, esso non potrà resistere a lungo ai colpi dell'ariete meccanico.

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