"La lingua italiana e il suo sessismo": risposta all'articolo di V. Piccoli

In un periodo che vede il diffondersi, costante ma purtroppo non totale, di una nuova sensibilità verso il mondo femminile che lotta affinché le disparità tra uomini e donne vengano meno in ogni settore del vivere sociale, è importante saper distinguere le considerazioni serie e in grado di fare la differenza da quelle confusionarie e prive di una solida base.
Mi sembra che nel caso dell'articolo in questione ci si avvicini più al secondo scenario. Senza in alcun modo rischiare di essere accusato di maschilismo o sessismo (si sarà intuito dall'introduzione che non rientro in alcuna di queste due correnti di pensiero, se così possiamo chiamarle), vorrei dimostrare come gli aspetti presi in considerazione da Piccoli non siano affatto dirimenti, ma anzi rischino di far concentrare l'attenzione su una questione irrilevante nella lotta alle forme di sessismo e maschilismo.
Partirei con ordine. L'articolo inizia così:

L’importanza del linguaggio e dell’uso corretto delle parole richiama l’attenzione verso una particolarità della lingua italiana: il suo sessismo. Probabilmente, questo mutamento trova la sua origine storica e culturale proprio nell'evoluzione dell’uso quotidiano della lingua da parte dei parlanti – un esempio su tutti: la sostituzione dell’articolo neutro latino con l’articolo maschile – ed è proprio da qui che dobbiamo agire per limitare ed infine evitare un impiego sessista della lingua.

Credo che alcune formulazioni contenute in questo stralcio dovrebbero insospettire chiunque abbia qualche nozione di storia di una o più lingue. Intanto, il latino non aveva gli articoli. In latino la funzione grammaticale era espressa dai casi, i cui suffissi venivano apposti ai temi o alle radici (prendiamo i temi in -a come rosa, che significa appunto"rosa"; se la parola esprime il soggetto (plurale) di una frase, come nella frase Rosae in hortum sunt - "Le rose sono nel giardino", essa avrà la desinenza che esprime il caso nominativo plurale; se esprime invece un complemento oggetto (singolare), come nella frase, Capio rosam - "Colgo la/una rosa", essa avrà la desinenza che esprime il caso accusativo plurale) sicché non vi era la necessità di utilizzare gli articoli determinativi o indeterminativi (ma esistono lingue come il greco antico in cui, accanto ai casi grammaticali, esistono anche gli articoli). Se l'autore avesse voluto fare una considerazione grammaticale, avrebbe potuto dire che i sostantivi o aggettivi neutri latini passano a corrispettivi maschili in italiano. Ma questa considerazione non sarebbe stata del tutto corretta. Si danno infatti casi in italiano in cui i neutri latini passano a femminili. Nel caso del latino ovum (nom. plur. ova) 'uovo', è vero che al singolare si tratta di un sostantivo maschile, eppure il plurale di 'uovo' è (le) 'uova', con articolo femminile; caso analogo è 'le braccia' (dal lat. brachium, neutro).
Il motivo per cui questo e simili tipi di ragionamento falliscono ineluttabilmente è che le lingue sono a tutti gli effetti entità biologiche, dotate di vita propria e non rispondono affatto ai nostri capricci di parlanti. O meglio, una lingua può anche cambiare per sollecitazione di chi la parla, ma devono verificarsi alcune condizioni: anzitutto, le trasformazioni che avvengono nell'uso linguistico devono estendersi a un numero consistente di parlanti quella lingua. Come è ovvio, non si può inventare di sana pianta un nuovo vocabolo e pretendere che quello entri da subito nel dizionario di una lingua. Occorre, anzitutto, che l'uso di quel nuovo vocabolo sia frequente e diffuso. Molto spesso, però, le lingue cambiano senza che i parlanti che vivono in una data fase di questo cambiamento possano rendersene conto. Non è certo per una 'decisione' che, nel passaggio dal latino alla maggior parte delle lingue romanze (compreso l'italiano) sia sparito il sistema di declinazione. Semplicemente, l'uso delle preposizioni si è fatto sempre più frequente, fin quando le declinazioni non sono state completamente abbandonate. Considerando la problematica di cui ci stiamo occupando, non è difficile immaginare che, sebbene non sia andata sempre così, la maggior parte dei nomi neutri latini siano passati a maschili in italiano per una semplice legge di uniformità, e non per chissà quale meccanismo di discriminazione del genere femminile.
Questa legge di uniformità è applicabile poi anche a un altro problema posto in essere dall'Autore:

Seguendo le regole grammaticali, se in una frase è presente un aggettivo che si riferisce a due o più nomi, questo viene declinato al plurale e mantiene il genere dei nomi se essi sono tutti maschili o tutti femminili. Se invece i nomi sono di genere diverso, l’aggettivo viene declinato al maschile plurale anche se ci si riferisce ad un gruppo formato da cento donne ed un solo uomo.
Una semplice soluzione per evitare questo problema è quella di concordare il genere dell’aggettivo con il sostantivo che esprime il numero maggiore, invece che con il solo nome di genere maschile.

La soluzione proposta non sembra affatto facile. Può andare bene nei casi netti (100 donne e un uomo), ma non certo in situazioni in cui non è possibile discernere la maggioranza maschile da quella femminile. Se abbiamo di fronte una platea di 56 donne e 48 uomini, ad esempio, dovremmo metterci a contare uno per uno quelli a cui possiamo riferirci semplicemente come 'spettatori'?
Passiamo ora alle conclusioni: Piccoli sostiene che motivi di ordine culturale avrebbero portato a questo 'maschilismo linguistico'. Questo è un problema che meriterebbe una discussione a parte. Potrei anche essere d'accordo sul fatto che la cultura occidentale degli ultimi 2000 anni almeno è stata forgiata prevalentemente e in modo prevaricatorio da menti maschili, e che questo potrebbe aver avuto una traccia (non so dire quanto profonda) sulla storia delle diverse lingue, tra cui l'italiano. Mi sembra però che il problema venga mal centrato dal Piccoli che, come abbiamo visto, si appella ad argomenti non convincenti e poco fondati. Maggiore attenzione meriterebbe la parte finale in cui Piccoli sottolinea la mancanza, in ambito professionale, di analoghi femminili per i nomi di alcune cariche ('rettore', 'medico', 'avvocato'). Tuttavia credo che oggi la situazione stia cambiando. Si sta diffondendo l'abitudine di adattare alcuni di questi nomi al femminile ('la ministra', 'la sindaca'), che inorridisce alcuni ma che teoricamente è del tutto ammissibile. Se queste forme, però, non dovessero prendere piede, credo che non sarebbe colpa di una mentalità sessista. Dobbiamo infatti tener presente che è l'uso che plasma la norma, e non viceversa. E sebbene si insista nel voler inserire nel dizionario italiano la forma 'petaloso', tale pretesa non è confermata dalla diffusione di una tale forma.

Link all'articolo di Piccoli: https://it.babbel.com/it/magazine/sessismo-italiano

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