Chomsky contra Foucault, ovvero: Esistono principi etici universali?

Nel 1971 un'emittente televisiva olandese trasmise un dibattito tra Noam Chomsky e Michel Foucault. Si trattava di un confronto tra intellettuali ben affermati al tempo (e lo sarebbero stati anche per i decenni a venire, fino ad oggi). Il primo era diventato, da una quindicina d'anni, uno dei linguisti più noti e acclamati del mondo, grazie all'elaborazione della 'grammatica generativo-trasformazionale', una teoria avente come obiettivo quello di individuare e spiegare le basi biologiche del linguaggio. Il secondo era divenuto famoso grazie alle sue critiche alle condizioni della società moderna occidentale, dotata, secondo il filosofo, di organi istituzionali legalmente legittimati ma atti, nella sostanza, a tutelare e rafforzare le élites al potere.
Due figure diverse, con apparentemente pochi o pochissimi punti di contatto intellettuali, ma che diedero vita, in quel dibattito televisivo del 1971, ad un interessante confronto sulla scienza, la politica e l'etica.

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Il dibattito è facilmente reperibile integralmente su Youtube (https://www.youtube.com/watch?v=3wfNl2L0Gf8). Qui vorrei concentrare la mia riflessione solo su pochi dei punti toccati dalla discussione tra i due, quelli che mi sembrano più interessanti e più attuali.
Essi riguardano nozioni quali 'etica', 'morale' e 'giustizia'. Chomsky dichiara di credere che esistono dei principi morali universali, la cui base non è ben dimostrabile, che permetterebbero, una volta raggiunti o ottenuti dall'umanità, la costruzione di una società più giusta. Foucault è molto scettico su questo punto. Egli sostiene che principi quali l'amore, l'equità, la libertà di parola e di espressione, la libera autodeterminazione della persona, non siano universali, ma piuttosto figli di un dato contesto storico-sociale. Essi cioè non sono 'idee genuine', ma condizionate dal contesto socio-politico ed economico in cui viviamo. Secondo Foucault, in sostanza, nessuno ha diritto di dire che esistano 'principi universali' perché ognuno matura le proprie idee, anche etiche, in un contesto pregno di ideologia dalla cui influenza l'individuo non può esimersi. In tale condizione, non resta che ripiegare sul relativismo morale che, riconoscendo sostanzialmente la legittimità di ogni nozione di giustizia maturata all'interno delle società, non riconosce ad alcuna di esse una qualche preminenza sulle altre.
La posizione di Foucualt e quella di chi generalmente si appella al relativismo morale, mi sembra estrema e priva di buon senso. Non nascondo di sentirmi invece in pieno accordo con quanto sostenuto da Chomsky, se non letteralmente, almeno in linea di massima. Come Chomsky ha sostenuto anche dopo questo incontro, la morale non è esente da quel processo che chiamiamo progresso e che è tipico delle scienze. Prendiamo il caso della discriminazione contro l'omosessualità. Fino a non molto tempo fa, infatti, era piuttosto frequente che ci si riferisse all'omosessualità come ad una condizione patologica (questo fu, tra l'altro, il contesto in cui si situò la tragica morte del grande matematico Alan Turing). Oggi le cose sono molto cambiate e guarderemmo con perplessità, se non con aperto disprezzo, chiunque dicesse che l'omosessualità è una malattia (il che purtroppo non si verifica così di rado). Secondo Foucault non potremmo dire, però, che la nostra società è 'più giusta' di quella degli anni di Turing, perché a quel tempo era considerato giusto considerare l'omosessualità una malattia da curare anche in modo coercitivo. Il che è in assoluto contrasto con quanto penserebbe Chomsky e con quanto penso personalmente. Se forse è vero che non esiste una morale assoluta, è sotto gli occhi di tutti che certe morali possano essere considerate 'più giuste' di altre. Il criterio con cui dico ciò è che le morali 'più giuste' garantiscono un margine di libertà e di uguaglianza maggiore di quanto non facciano le altre morali. Tali altre morali sono quelle generalmente difese dalla tradizione e dalle religioni tradizionali che non vogliono attenuare i propri principi-cardine. Quindi, società in cui tutte le categorie etniche, sessuali, politiche e religiose, sono tutelate dalla legge e considerate pari di fronte ad essa sono, secondo me, moralmente 'più progredite' di quelle in cui tale diritto di uguaglianza non viene riconosciuto.
Non si potrà dire che io abbia dimostrato l'esistenza di 'principi di giustizia universali', ma è bene riflettere sul fatto che la razionalità, che ha giocato un ruolo essenziale nello sviluppo della scienza, possa rappresentare un ottimo criterio quando si discute di morale.

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